Urbex, il turismo del tempo perduto
Augusta Amolini

Anche senza scomodare Nietzsche, in America le cose succedono sempre prima “al di là del bene e del male”. Lì tutto è grande. Le taglie oversize si modellano addosso ad ogni circostanza e forse per questo tutto deborda in fretta.

Al di qua dell’oceano invece sentiamo l’eco di ciò che accade sotto il cielo a stelle e strisce; sennonché, mentre ancora analizziamo le cause ci arrivano gli effetti tra capo e collo come mazzate. Attraverso il copia e incolla degli eventi non importiamo solo le nuove tendenze o le meraviglie della tecnologia. Dell’America tendiamo a replicare un po’ tutto, dalle speculazioni finanziarie fino ai disastri immobiliari che in alcuni Stati dell’Unione hanno cambiato drammaticamente la vita di tante famiglie.

L’immagine di interi quartieri, abbandonati da persone non più in grado di pagare i mutui, è ancora impressa nella memoria e non è affatto diversa da quella di tanti centri commerciali che adesso versano in stato di abbandono. Non c’è nulla di più inquietante di un grande edificio vuoto che si sgretola sotto i colpi dell’incuria e dei vandali i quali cannibalizzano migliaia di metri cubi di cemento. Questo genere di desolazione ha creato un nuovo tipo di turismo denominato “Urbex”, praticato anche in Italia.

Si tratta dell’esplorazione urbana di fabbriche dismesse, della ricerca di antichi alberghi chiusi per restauro che non riapriranno più. Un escursionismo clandestino effettuato dentro palazzi privati abbandonati o in chiese dove non si prega più. Ma sono i grandi magazzini in rovina, ridotti a cattedrali nel deserto, i testimoni tristi di un florido passato irrimediabilmente perduto.

Di sera a Brescia questa sensazione si prova andando al cinema nella multisala “Freccia Rossa”, un luogo ormai privato dell’anima. Dopo la migrazione dei negozi nel circondario e a seguito del covid, le saracinesche definitivamente abbassate suscitano nei visitatori una botta di nostalgia. L’assenza di luci e del vociare di chi si accalcava all’esterno dei ristoranti emana un senso di esiziale smarrimento.

Solo il piacere del cinema non è cambiato. Al ritorno nel parcheggio, pressoché deserto, le rare vetture rendono la dimensione dell’agonia di uno stabile moderno vicino al centro, già meta degli esploratori urbani. Il presentimento di essere già nel passato come i barattoli di Tomato Soup Campbell’s di Andy Warhol è forte. Anche Guglielmo Achille Cavellini con la sua “autostoricizzazione” forse lo aveva previsto.

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